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7 SETTEMBRE 1938

Il 7 settembre 1938 in un piccolo confuso paese del casertano nasce Natale Maria Preziosa, in una casa di contadini dove il lavoro e la fatica erano all’ordine del giorno; dove unione ed amore teneva insieme la famiglia.
Il 7 settembre 1938 è nata la mia mamma, ultima di 5 figli, coccolata da tutti, vezzeggiata, è cresciuta dedita al lavoro nei campi, al ricamo, alla cucina. All’età di 18 anni la malattia l’ha toccata, un’imperfezione al cuore che mano a mano, nonostante gli interventi, le medicine, le accortezze l’ha portata alla morte.
Madre amorevole, dedita alla casa, all’ordine, al ricamo, al rammendo, alla cucina, al giardinaggio a tutto ciò che le dava modo di creare, di abbellire nonostante le difficoltà, al di sopra delle ristrettezze, della scomodità.
Due figlie, un marito, tante difficoltà di salute e di denaro sempre affrontate con coraggio e con dignità. Anche nei momenti più difficili, quando il maltempo, le nevicate, non permettevano a mio padre di poter lavorare, tempi duri allora per i muratori, mai ci ha fatto pesare la situazione, ingegnandosi in mille modi per non farci mancare nulla, per donarci serenità.

Ricordo che quando ci trasferimmo dal paese natale a Remedello si dormiva tutti e quattro in una grande stanza, due enormi letti troneggiavano potenti. Ricordo che abbracciata a mia sorella, faceva tanto freddo, mi rannicchiavo come un gomitolo cercando il tepore, sentivo mia madre e mio padre bisbigliare, sommessi, sospiravano poi il sonno ci rapiva e l’alba ci svegliava filtrando dalle imposte.
Allora si abitava in un cascinale assieme agli zii, la nebbia era fitta e fonda, la si poteva tagliare col coltello, i muggiti delle vacche giungevano indistinti; il chiocciare delle galline che a frotte si nascondevano dietro vecchie ferraglie; le oche e le anatre passeggiavano inzaccherate di fango nero e vecchi cani se ne stavano guardinghi in attesa di qualcosa che sbucasse dall’oscurità.
L’odore del latte appena munto era pungente. Mia madre lo faceva bollire, insaporendolo con zucchero o miele e ce lo offriva, a me e mia sorella, invitandoci a inzuppare il nostro pane, quello con la crosta dura e la mollica morbida con tanti forellini dorati.
La mia mamma preparava per noi la grande tinozza colma di acqua calda, vi faceva sciogliere scaglie di sapone profumato poi ci immergeva lavandoci con energia dappertutto.

Un grosso caldo asciugano steso davanti alla stufa a legna ci attendeva, ci avvolgeva come una seconda pelle.
Di sera, nelle lunghe sere d’inverno, mentre sgranava rosari ed orazioni in latino solea rammendare calzini e mutande, fare orli; preparava il pranzo per mio padre che all’alba sarebbe partito per il cantiere; lo riponeva in un contenitore di allumino e poi lo avvolgeva in un grande tovagliolo, aggiungendo posate, frutta e pane, il tutto annodato con nodo stretto, preciso.
Ancora oggi rivedo le sue mani operare lesta, il suo odore, l’odore di cibo che era fatica e devozione, amore per lo sposo, per noi bimbe. Le era stato negato frequentare la scuola, sapeva a malapena scrivere il proprio nome purtuttavia era dotata di un intelligenza sopraffina, educata, volitiva; faceva conti a mente in men che non si dica.
Dall’orto si ricavava ogni ben di Dio, nulla veniva messo da parte o gettato ma reso utile per l’inverno: pomodori essiccati, pomodori verdi ripieni, peperoni sfilettati conditi con l’aglio ed acciughe; melanzane a tronchetti sott’olio, conserva di pomodoro, succhi alla frutta, pesto alla genovese, gnocchi di patate, pasta fresca; anche pollame riposto nel congelatore e poi salame nostrano e salamini sottolio. Anch’io dovevo collaborare, raccogliere, sbucciare, lavare, impastare, riporre…
Imparavo ed aiutavo dopo aver finito i compiti. Nel mentre ascoltavo i discorsi dei grandi, mi ponevo mille domande, quesiti, perché.
Mia madre mi partorì a 38 anni. Quando nacqui ero tanto piccola che temevano potessi morire; pesavo 1800 grammi. La mamma per paura mi perdessi mi riponeva sul cuscino avvolgendomi con ovatta calda, ogni tanto si abbassava sul mio petto per sentire se respiravo ancora.

Ho vissuto la sua malattia con angoscia, avevo paura di perderla, mi nascondevo a gambe incrociate nel piccolo corridoio, tappandomi le orecchie per non sentire. Quando le acque si acquietavano, quando il dottore andava via, mi avvicinavo al suo letto ed in silenzio piangevo tutta la mi disperazione. Lei muta mi carezzava il capo, giocando con qualche ciocca di capelli. In un silenzio tanto fondo e stridente l’essenza della vita, la marea di prima e di dopo, il non ritorno. Ed ora mamma, lo so che mi stai ascoltando, che dall’alto di vette irraggiungibili senti il mio grido.
Ed ora mamma, sono io ad essere mamma, a ripetere nella quotidianità gesti uguali e diversi, a gettare semi, a ripercorrere tratti, a riannodare fila, a cercare di essere per le mie figlie quello che tu sei stata per noi: la nostra âncora.
Vittoria, la mia Vittoria, la nostra Vittoria, la sua malattia ti ha sempre ferito come lama affilata, dolore incolmabile che rivolgevi alla Vergine Maria. Celeste, sogno e speranza, spiraglio di luce nella tempesta. Celeste che forte stringevi al petto, che ninnavi, coccolavi, fra le traccia tenevi cantandole canzoncine. Ed ora sono io mamma che urlo e gemo, che sento ancora viva la tua mancanza, assenza, distanza.
Vorrei, per un momento, chinare il capo nel tuo grembo per sentire il tuo calore, odore, sentore, presenza, pace, serenità, infinito amore.
Vorrei, essere tutto e niente per raggiungerti fra le lontananze astratte, toccare il cielo, annaspare il tuo profumo, farlo mio, essenza e primizia che non tramonta, non sfuma, non demorde.

Oggi al camposanto t’osservavo, parlandoti certa di essere ascoltata, alla luce sorgevano ricordi tremuli e profondi, forte li carezzavo traducendoli in parole, condividendoli col silenzio, col solitario sostare di passeri in volo; al vello innalzando dolori e gioie, accenni di sogni, malinconia matura. Fuori è buio mamma, ombre dense hanno vestito il paese, tutto tace sommerso in una pace senza tempo.
Affacciata alla finestra di una grande casa bianca, mentre l’astro spicca fra spire di tenebre un canto si solleva: “Auguri mamma, ti voglio bene”.

Milena, la mamma di Vittoria e di Celeste

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