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28 Gennaio 1986: un disastro dello Shuttle Challenger (2^ parte)

Il problema non è stato rilevato perché, contemporaneamente, proprio la fuoriuscita dei gas ha creato un “tappo” di ossido di alluminio, che ha sigillato la perdita al posto delle guarnizioni, facendo tornare tutto nei parametri previsti.
Si può pensare che anche la sfortuna abbia avuto un ruolo nell’evolversi del disastro, e in questo caso la malasorte si è manifestata nel forte wind shear che il veicolo ha incontrato durante la sua ascesa. I bruschi cambiamenti del vento hanno spazzato via il fortuito sigillo di ossido d’alluminio che si era creato sul SRB, e gli esperti affermano che se non fosse stato per il vento il Challenger avrebbe potuto raggiungere l’orbita (dopo essersi liberato degli SRB) senza problemi.In queste condizioni invece, il veicolo ha perso il suo assetto, e come già spiegato si è disintegrato a causa dell’insopportabile pressione aerodinamica.Tuttavia, al contrario di quanto possa sembrare osservando le immagini, il Challenger non è “esploso”. La nuvola di fumo visibile è in realtà principalmente semplice vapore acqueo, dovuto al rilascio istantaneo dell’ossigeno e idrogeno liquidi usati come propellente.
Lo Shuttle è stato quindi ridotto in pezzi, ma non in seguito a una detonazione. La cabina dell’equipaggio si è distaccata dal resto ma è rimasta integra, e ha proseguito lungo una traiettoria balistica per altri 25 secondi, prima di iniziare a precipitare. L’ultima comunicazione proveniente dall’equipaggio è stato un “Uh-oh” pronunciato dal pilota Michael J. Smith.
La disgrazia dello shuttle Challenger:
la sorte degli astronauti.
Nessuno avrebbe potuto sopravvivere al terribile incidente, ma i tempi e le cause di morte degli astronauti del Challenger non sono certi.
La cabina dell’equipaggio era progettata per riuscire a sopportare circa 5 g. Le stime ricavate in seguito affermano che al momento del distacco dal resto dello Shuttle la cabina può aver subito una spinta dai 12 ai 20 g, ma questo picco è durato pochi secondi, dopo i quali la cabina si è trovata in caduta libera. Se anche alcuni dei sette astronauti possono essere rimasti feriti o storditi in questa fase, è improbabile che siano morti allora. Inoltre, una volta recuperato il relitto della cabina, è stato accertato che tre dei sette respiratori di emergenza erano stati attivati, e il consumo di ossigeno corrisponde a quello che sarebbe servito durante i quasi tre minuti tra la distruzione dello Shuttle e l’impatto con l’oceano. Un altro particolare che fa supporre che, almeno inizialmente, alcuni astronauti fossero vivi e coscienti, sono alcuni interruttori della plancia del pilota Smith che sono stati trovati spostati: ognuno di essi richiede un particolare movimento (paragonabile a quello delle manopole del gas casalingo) che previene l’attivazione accidentale, e che, a quanto è stato stabilito, non avrebbe potuto essere provocato né dalla disintegrazione del veicolo né dal contatto con l’acqua.
Se gli astronauti sono rimasti coscienti fino all’impatto finale in mare non è chiaro, e dipende in larga misura dalla capacità della cabina di conservare una pressione interna adeguata. Quello che è certo è che, impattando la superficie oceanica a una velocità di 330 km/h, con una decelerazione superiore alle 200 g, la morte è stata istantanea per tutti. Di fatto, la collisione è stata così violenta che il relitto recuperato non offre indizi relativi ai danni subiti dalla cabina dopo il distacco e durante la caduta libera. Ma gli indizi fanno inquietantemente supporre che alcuni membri dell’equipaggio fossero ancora coscienti per tutto il tempo. Alcuni esperti ritengono anzi che il comandante Scobee e il capitano Smith, ignari di quanto era successo, abbiano tentato di ripristinare i sistemi e far volare il veicolo fino all’ultimo, fatale istante.
Il disastro dello shuttle Challenger: le conseguenze
Il disastro del Challenger ha sollevato immediatamente polemiche molto accese su più fronti. La NASA è stata criticata fin da subito per la reticenza con cui ha evitato di fornire informazioni subito dopo l’incidente, lasciando alla speculazione dei media la descrizione e la spiegazione di quanto accaduto. Prima ancora che fosse pronta una versione ufficiale dei fatti, praticamente tutto il mondo era a conoscenza della terribile fine dello Shuttle. L’ampia copertura mediatica data all’evento ha fatto sì che l’opinione pubblica mantenesse vivo l’interesse nei confronti della missione, anche dopo il suo catastrofico fallimento.
Alcune ricerche hanno in seguito rilevato che la distruzione del Challenger è stata una delle notizie a più rapida diffusione della storia moderna. Questo può essere anche dovuto al fatto che, a causa della presenza di Christa McAuliffe per il programma “Teacher in Space”, in molte scuole americane agli alunni fu mostrato il lancio in diretta televisiva. Con il procedere dei lavori della Rogers Commission, l’attenzione si è gradualmente spostata sulle cause dell’avaria e sull’evitabilità del disastro.
Una volta identificata l’origine dell’incidente nell’inadeguatezza degli O-ring, è stata l’azienda Morton Thiokol a essere posta sotto accusa. Tuttavia, nel contenzioso provocato dalla Commissione, è emerso che una parte consistente della responsabilità era da attribuire alla NASA stessa, i cui dirigenti hanno spesso ignorato le regole di sicurezza per poter seguire i tempi di missione prestabiliti.
In particolare, quando prima del lancio gli ingegneri Morton Thiokol hanno espresso i loro dubbi circa le basse temperature, evidenziando proprio la debolezza degli O-ring, la NASA ha sminuito il rischio affermando che nel caso che la guarnizione primaria avesse fallito era comunque presente una guarnizione di backup. Un argomento del genere non era applicabile nel caso degli O-ring, che sono un componente “Criticality 1” (cioè al livello massimo di criticità), per il quale il backup deve fornire ridondanza in caso di avarie impreviste, non sostituire il pezzo primario. Successive indagini hanno dimostrato che il difetto degli O-ring era noto fin dal 1977, ma sia la Morton Thiokol che la NASA avevano ritenuto che si trattasse di un problema trascurabile. Un altro aspetto fortemente osteggiato fu l’impossibilità di fuga dell’equipaggio, che era di fatto chiuso nella cabina senza alcun modo per uscire, nonostante nei tre minuti trascorsi tra la distruzione e l’impatto con il mare ne avrebbe avuto tutto il tempo.
Secondo la NASA, l’alta affidabilità dei sistemi non rendeva necessario un sistema di fuga, e mentre i sedili eiettabili erano presenti durante i voli sperimentali dello Shuttle, sistemi analoghi sono stati rimossi per le missioni vere e proprie, a causa del loro costo e del notevole spazio che avrebbero richiesto nel compartimento dell’equipaggio. Dopo il disastro del Challenger, numerosi sistemi di fuga sono stati presi in considerazione, e per la maggior parte scartati per gli stessi motivi. Ma anche in questo caso, gli unici sistemi di fuga integrabili nello Shuttle non avrebbero reso possibile il salvataggio dei sette astronauti del Challenger.
Ma al di là dei difetti di progettazione, a essere messo in discussione è stato soprattutto l’intero processo decisionale della NASA.
Le irrealisticamente ottimistiche previsioni riguardo i parametri di missione, e la leggerezza con cui alcuni particolari (come appunto l’efficacia degli O-rings) venivano ignorati, considerati come rischi accettabili, sono stati indicati dalla Rogers Commission come cause principali del disastro del Challenger.
Al termine dei suoi lavori, la Commissione fornì una relazione in cui le cause dell’incidente erano identificate tanto nei difetti tecnici di progettazione quanto nell’inadeguata comunicazione e affidabilità tra le diverse sezioni della NASA e tra questa e le sue controparti. La Rogers Commission stilò nove “raccomandazioni” che la NASA avrebbe dovuto implementare prima di poter riprendere i propri programmi.
Nonostante il buon esito delle successive missioni dello Shuttle (riprese nel settembre del 1988), il disastro del Columbia nel 2003 ha sollevato di nuovo polemiche nello stesso senso.

Fonti e riferimenti:
http://www.youtube.com/watch?v=_10T4UYpzV8
http://en.wikipedia.org/wiki/Space_Shuttle_Challenger_disaster
http://history.nasa.gov/sts51l.html
http://history.nasa.gov/rogersrep/genindex.htm

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