LaL’incidente di Vermicino fu un caso di cronaca italiana del 1981, in cui perse la vita Alfredo Rampi detto Alfredino (nato a Roma l’11 aprile 1975), caduto in un pozzo artesiano in via Sant’Ireneo, in località Selvotta, una piccola frazione di campagna vicino a Frascati, situata lungo la via di Vermicino, che collega Roma sud a Frascati nord. Dopo quasi tre giorni di tentativi falliti di salvataggio, Alfredino morì dentro il pozzo, a una profondità di 60 metri. La vicenda ebbe grande risalto sulla stampa e nell’opinione pubblica italiana, con la diretta televisiva della RAI durante le ultime 18 ore del caso.
L’incidente
Nel mese di giugno 1981 la famiglia Rampi (composta da Ferdinando Rampi, 41 anni, dipendente dell’ACEA, dalla moglie Francesca Bizzarri, 39 anni, dalla nonna paterna Veja e dai figli Alfredo, 6 anni, e Riccardo, 2 anni) stava trascorrendo un periodo di riposo nella loro seconda casa, sita in via di Vermicino, a Finocchio (Roma). La sera di mercoledì 10 giugno il signor Ferdinando, in compagnia di due suoi amici e di Alfredo, uscì a fare una passeggiata nella campagna circostante. Venuta l’ora di tornare indietro, alle ore 19:20, Alfredo chiese al padre di poter continuare il cammino verso casa da solo, attraverso i prati. Ferdinando acconsentì, ma quando giunse a casa (attorno alle ore 20:00) scoprì che il bambino non era arrivato. Dopo circa mezz’ora, i genitori cominciarono a cercarlo nei dintorni: non trovando la minima traccia, alle 21:30 circa allertarono le forze dell’ordine.
Nel giro di 10 minuti giunsero sul posto Polizia, Vigili urbani e Vigili del fuoco, oltre ad alcuni abitanti del posto, attratti dal viavai. Tutti insieme si unirono ai genitori nelle ricerche, che vennero portate avanti anche con l’ausilio di unità cinofile. La nonna Veja ipotizzò per prima che Alfredo fosse caduto in un pozzo profondo circa 80 metri, recentemente scavato in un terreno adiacente, ove si stava edificando una nuova abitazione; tale pozzo venne tuttavia trovato coperto da una lamiera tenuta ferma da sassi.
Un agente di polizia, il brigadiere Giorgio Serranti, allorché venne a conoscenza dell’esistenza del suddetto pozzo, sebbene gli fosse stato detto che esso era coperto, pretese di ispezionarlo ugualmente: fatta rimuovere la lamiera, infilò la sua testa nell’imboccatura, riuscendo così a udire i flebili lamenti di Alfredo. Si scoprì poi che il proprietario del terreno soprastante aveva messo la lamiera sulla fessura intorno alle ore 21:00, senza minimamente immaginare che all’interno ci fosse intrappolato un bambino e mentre già erano iniziate le ricerche.Il proprietario del terreno, Amedeo Pisegna, abruzzese di 44 anni, insegnante di applicazioni tecniche, verrà in seguito arrestato con l’accusa di omicidio colposo e con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni.
I soccorsi
Nel giro di pochi minuti i soccorritori si radunarono all’imboccatura del pozzo. Come prima cosa venne calata nella voragine una lampada, tentando invano di localizzare il bambino. La prima stima rilevò che Alfredo era bloccato a 36 metri di profondità: la sua caduta era stata arrestata da una curva o una rientranza del pozzo. Le operazioni di soccorso si rivelarono subito estremamente difficili: la voragine presentava infatti un’imboccatura larga 28 cm, una profondità complessiva di 80 metri e pareti irregolari, piene di sporgenze e rientranze. Giudicando impossibile calarvi dentro una persona, il primo tentativo di salvataggio consistette nel calare nell’imboccatura una tavoletta legata a corde, allo scopo di consentire al bimbo di aggrapparvisi per sollevarlo; tale scelta si rivelò un grave errore, in quanto la tavoletta si incastrò nel pozzo a 24 metri, ben al di sopra di Alfredino e non fu più possibile rimuoverla, poiché la corda che teneva la tavoletta si spezzò e di conseguenza il condotto ne risultò quasi completamente ostruito.
Attorno all’1 di notte alcuni tecnici della Rai, allertati allo scopo, piazzarono una telecamera nelle vicinanze e calarono nel budello roccioso un’elettrosonda a filo, per consentire ai soccorritori in superficie di comunicare con Alfredino.
Il bambino, almeno per il momento, rispondeva lucidamente.
Non essendo possibile calare una persona direttamente nello stretto pertugio, si pensò di scavare un tunnel parallelo al pozzo, da cui aprire un cunicolo orizzontale lungo 2 metri, che consentisse di penetrare nella cavità poco sopra il punto in cui si supponeva si trovasse il bambino. Per far ciò occorreva una sonda di perforazione, che fu reperita alle ore 6:00, dalla ditta Tecnopali di Roma, grazie alla pronta disponibilità del giornalista del TG2 Pierluigi Pini, che aveva visto per caso un appello in tal senso su una emittente televisiva privata laziale e ne possedeva una. Alle ore 4:00 dell’11 giugno giunse sul posto un gruppo di giovani speleologi del Soccorso Alpino, che si offrirono come volontari per calarsi nel sottosuolo.
Il caposquadra, il ventiduenne Tullio Bernabei, di corporatura sufficientemente magra, fu il primo a scendere nel pozzo: calato a testa in giù, tentò di rimuovere la tavoletta che era rimastra incastrata. Tuttavia i restringimenti del pozzo gli consentirono di arrivare solo a un paio di metri da questa.
Dopo di lui si calò un secondo speleologo, ma anch’egli arrivò a pochissima distanza dalla tavoletta, non riuscendo a prenderla. Nel frattempo i Vigili del fuoco avevano incominciato a pompare ossigeno nel pozzo, allo scopo di evitare l’asfissia del bambino. Il comandante dei Vigili del fuoco di Roma, Elveno Pastorelli, giunto nel frattempo sul posto, ordinò allora di sospendere i tentativi degli speleologi e concentrare gli sforzi nella perforazione del “pozzo parallelo”. Una geologa lì presente, Laura Bortolani, ipotizzando i substrati di terreno molto duri che si sarebbero incontrati in profondità, fece notare a Pastorelli che sarebbe occorso un lungo tempo per la perforazione, e pertanto propose di proseguire anche con gli altri tentativi nel pozzo in cui si trovava Alfredino. Secondo Tullio Bernabei tale suggerimento sarebbe stato respinto da Pastorelli, il quale avrebbe ribadito il divieto di ulteriori discese, ordinando pertanto agli speleologi di sgomberare.
Alle ore 8:30 la sonda cominciò a scavare: a tutta prima il terreno si rivelò friabile e la macchina riuscì a calare di 2 metri in due ore. Verso le 10:30 tuttavia, come previsto dalla dottoressa Bortolani, l’apparato incontrò uno strato di roccia granitica (noto come “cappellaccio”) dura e difficile da scalfire. Nel frattempo Alfredino si lamentava per il forte rumore e alternava momenti di veglia a colpi di sonno; al contempo cominciò a chiedere da bere. Alle 10:30, per non interferire con le comunicazioni via etere dei soccorritori, la Rai e le stazioni radiofoniche laziali disattivarono i loro ponti radio in onde medie.
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